Oggi, l’acropoli appare segnata da assenze, vuoti di cui solo la memoria può completare e ritessere le perdute relazioni: il medievale palazzo comunale, la torre sinistra della Cattedrale madre o l’isolamento della Porta San Francesco, dopo l’abbattimento del monumentale convento, fondato dallo stesso Santo, e le mura restanti testimoniano il mutato ruolo funzionale svolto dalla parte alta della città nell’ambiente urbano e territoriale della città nel tempo. Il borgo medievale che intanto si sarà sviluppato tra la piazza del mercato e il complesso di San Lorenzo, si attesta lungo il piano estremo, definito dall’andamento orografico, segnato dal fiume Potenza, limite e difesa della città: all’ombra del Montenero e del suo castello, rivolge, verso la ridente e soleggiata valle, lo sguardo vigile e ansioso, all’approssimarsi del nemico, del pericolo, annunziato già dai più distanti castelli. La differenza altimetrica tra il castello e il borgo, offre una visione dall’alto della Platea Mercati, dalla caratteristica forma a fuso. Sui colli circostanti la città, tra i borghi rurali, aprono i cancelli le dimore estive. Hanno lunghi viali ombreggiati da alti alberi, hanno giardini e orti, hanno querce antiche. Viviamo le forme e lo spazio, nel lontano vanificarsi di un paesaggio che si realizza senza scarti, senza soluzioni di continuità e si risolve in un dolce e incessante movimento, segnato da ripetuti accenti chiaroscurali. Le case o le chiesette di campagna, stereometricamente definite, appaiono in un’ostinata e ferma volontà d’isolamento, tuttavia in aperta simpatia col paesaggio. L’architettura e la luce, i vuoti e i pieni, si risolvono nel paesaggio, in una matericità chiara, distinta, misurata. La vasta piazza ellittica, orientata con una leggera rotazione verso nord-ovest, si presenta come centro della vita cittadina, spazio del quotidiano rispetto ai luoghi della memoria posti in cima al Montenero, con le torri, il castello, i conventi, la cattedrale madre, le mura antiche, gli uliveti assolati. Essa è destinata ad accogliere quanti approdano a San Severino. Nella piazza, le ampie curve dei palazzi che la cingono, realizzano uno spazio che muta di continuo e vive in funzione della luce e dello scorrere del tempo: la luce scorre sugli intonaci colorati e sul mattone a vista; le facciate si rincorrono senza soluzione di continuità; non esistono spigoli vivi e l’ombra convive con la vibrante luminosità cromatica dello spazio. La luce solare, diffusa dal cielo o diretta, è captata dalle curve e ampie superfici e indirizzata anche in quei punti che altrimenti vivrebbero di sola ombra.
In alto sul colle, la forte luce attraversa lo spazio e mostra l’isolamento e la “drammatica” presenza di architetture costruite per imporre un dominio alla natura e al territorio circostante. La città ha organizzato la sua sicurezza attraverso il dominio di un vasto territorio con le torri fortificate più distanti cui succede l’estrema difesa rappresentata dal fiume Potenza. Di là dal profondo fiume, la cinta muraria con le porte e le torri di difesa, limitano lo spazio “interno”: esso è sempre celato, tenuto quasi segreto, mentre la sua realizzazione appartiene al sacro; si accede a esso attraverso discontinuità e impedimenti, passaggi angusti o difesi, scale ripide e buie, penombre ove solo può vivere lo spirito.
Fin dalla sua fondazione la città alta assurge ad acropoli, dove sono conservate le memorie civili e religiose e la stessa torre civica è investita di un particolare significato simbolico che ancora oggi conserva e tramanda con iscrizioni, poste sulla torre all’epoca della sua edificazione, ed emblemi dei Ghibellini, partito al quale la città si è attenuta di preferenza. Sembra avere buon fondamento la tradizione locale, la quale racconta che una figura di leone fu posta dai cittadini per indicare la libertà riconquistata, quando nel 1339 riuscirono a togliere il potere a Smeduccio della Scala, il cui governo era durissimo; Smeduccio, però, tornò presto al potere e fece collocare, sopra il leone, l’altro bassorilievo con scolpito il “morso di cavallo” per significare il freno che egli avrebbe adoperato per tener soggetto il popolo. Anche in seguito, quando, in quel particolare momento storico, la Chiesa afferma che il Tempo appartiene solo a Dio e osteggia l’affermarsi del tempo quale misura individuale della vita dell’uomo, segno della nuova civiltà che avanza, la presenza di un orologio meccanico posto sulla torre civica, già prima del 1414, rinnova il valore simbolico cui è chiamata a rispondere quest’architettura che, di là dalla funzione militare, riveste un profondo significato religioso e di memoria civica della città, registrando di continuo tutto ciò che vive e si trasforma intorno, direttamente investita di quanto di nuovo accade nel mondo: infatti, solo pochi anni prima, in Italia, il primo orologio meccanico era stato costruito a Milano e considerata la forte vicinanza del casato degli Smeducci con la Signoria di Milano, la presenza di un altro orologio meccanico sulla torre civica di San Severino non può non essere considerato come la volontà di manifestare l’aggiornamento culturale proprio della città, oltre ad un’estrema affermazione del proprio potere, in contrapposizione all’area egemonica, culturale e politica, facente capo alla Chiesa di Roma.
In conclusione, la consapevolezza delle proprie origini, il senso di appartenenza a uno spazio che affonda le proprie radici nel passato, il carattere “misurato” degli stessi abitanti, la presenza-assenza, nell’unico paesaggio, di spazi, architetture e città tra loro distanti nel tempo, l’affiorare di un tempo universale che qui trova espressione nel preservare, visibile e distinguibile, ciò che altrimenti sarebbe cancellato dal tempo, frutto di sovrapposizioni indistinte operate dalla storia, ci offre un presente che non pone i propri limiti unicamente nello spazio, ma che preferisce procedere a “spasso nel tempo”.
Tuttavia, potremmo ancora dubitare del valore, profondamente religioso e simbolico, attribuito all’acropoli sul Montenero e non essere ancora convinti che, in una terra in cui la temperanza è una virtù comune, questo simbolismo sia stato posto alle fondamenta della propria struttura urbana e architettonica, armonicamente fusa con la natura circostante, originaria, universale. Allora, non resta che trattenersi oltre il tramonto del sole, affidarsi al movimento dell’ottava sfera del cielo e riflettere su quanto affermato dallo stesso Aristotele nel quattordicesimo capitolo del quarto libro della “Fisica”, ove, seguendo peraltro il senso comune, ritiene che il tempo universale sia espresso dal movimento circolare dell’ultima sfera celeste, l’ottava, quella delle stelle fisse; movimento la cui uniformità è provata per ragionamento e non attraverso la misura: la rotazione della volta celeste è il tempo del senso comune. E dentro questo tempo, gli istanti sono le congiunzioni osservabili degli astri, mentre l’unità temporale è l’anno siderale con l’alternarsi delle quattro stagioni.