“…..e così s’avvinsero, l’assente e il presente, in soavissima mescolanza di voluttuosa eccitazione.”
da “Le affinità elettive” di Johann Wolfgang Goethe
Il carattere di totalità, le mescolanze che vi partecipano, i diversi armonicamente fusi, investono, senza sorprendere, chi procede verso San Severino Marche, in terra della “Marca”, terra di confine: luogo ove, al limite, gli opposti coincidono. La trasfigurazione che subisce il disegno dei campi, nel corso delle stagioni, particolarmente in risalto in questa crespa terra, vicina alle decorazioni di stoffe e ceramiche, come al gusto decorativo e prezioso della locale pittura “cortese”, pone alla mente di chi già conosce, lo spettacolo di un continuo mutare della forma, non già naturale ma opera totale dell’uomo. Si eterna un presente che muove lentissimamente, incessante, sempre uguale a se stesso, eppure diverso e lontano nel tempo. Il sopra e il sotto, l’alto e il basso, la linea dell’orizzonte e l’andamento collinare, la figura e il fondo, il sacro e il profano, si confondono, si compenetrano, nel carattere di totalità del luogo, trascendentale. L’ordine naturale, plasmato nel tempo, appare quale opera totale dell’uomo; la città s’identifica con il luogo che abita, in una corrispondenza di materiali e scale cromatiche, in sintonia di intenzioni profonde.
In tale ambiente il campanile a vela rappresenta l’elemento tipico dell’architettura delle chiese rurali e delle pievi romaniche: vero e proprio segno-simbolo, figura architettonica in cui la campana, la “finestra sul cielo” e la natura, giacciono sullo stesso piano. Guardiamo come alla superficie di un palinsesto, ove le figure successive tendono a scomparire e solo parzialmente risultano presenti ai nostri sensi, mentre la memoria diventa l’occhio più pronto ad una tale rivelazione del tempo, nella chiave interpretativa e nei temi della complessità e tumulto urbani come nelle ragioni del carattere di distensione e pacatezza del paesaggio rurale, classico: espressione contrapposta di una realtà in continuo movimento, fissata entro la vasta dimensione del paesaggio o nel fitto ritmo urbano, misura delle distanze e degli scarti interni al continuum narrativo, messa a fuoco di una realtà che continuamente torna a parlare di sé mentre il presente si pone in antitesi all’immanenza dei valori propri: TESSITURA-SPAZIALITA’-INCLINATE-SOLARITA’.
In questo spazio confluiscono temi e motivi originali, propri del luogo, in funzione di stimoli percettivi e sensoriali, spazi ricavati da una costante ricerca nella memoria e nel tempo di tutte le possibili figure del comporre. Il linguaggio perde la centralità del discorso e disperde i suoi segni in un ampio e vasto territorio, ove tra le parti insistono delle fratture e gli elementi si relazionano attraverso dei vuoti, mostrando le proprie distanze reciproche. Il lavoro di chi opera in un simile contesto, diviene simile al lavoro dell’archeologo: ove questo togliendo materiale, mostra la complessità e la sovrapposizione, quello dovrà dare forma a questa lingua plurale delle architetture e dei luoghi.
Oltre ogni possibile definizione, permane un senso d’indecifrabilità dell’oggetto, un mistero gelosamente custodito, disvelato per frammenti così come nel definire il contorno di una coppa cerchiamo di assegnare un posto, un senso definito all’oggetto: diversamente, nel suo rapporto di trasparenza col mondo, assume i molteplici e mutevoli profili, in una doppia relazione del mondo nell’oggetto e dell’oggetto che abita il mondo.
Così, l’originaria e cupa macchia, il disagio dell’incombenza, che affiora a tratti, appare ora quale il ricordo dell’originario rifugio, natura, quindi a lungo, ostinatamente combattuta, mentre il luogo dell’antica Septempeda segna un’assenza: non è avvenuta una ricostruzione e la città si svela interamente quale archeologia, disegno del tracciato, misura degli spazi interni, memoria. Alla memoria sono, appunto, legati due attività quali l’archeologia e il disegno, luoghi dell’assenza, evocazione della forma.