Dal 3 ottobre al 7 novembre 1987 si è svolta, sebbene in ritardo, una mostra commemorativa per il centenario dalla morte dell’architetto Ireneo Aleandri (8 aprile 1795 San Severino Marche – 6 marzo 1885 Macerata) con la pubblicazione di un primo catalogo di opere. Per l’occasione La Voce Settempedana dedica all’illustre concittadino alcuni articoli. Tra questi un mio scritto comparso all’interno del n. 38 del 26 settembre 1987 e del n. 39 del 3 ottobre 1987.
“Nel 1848, in Macerata, viene pubblicato un libretto ad opera del conte Severino Servanzi Collio, dal titolo eloquente, Il nuovo tempio di San Paolo fuori delle mura della città di Sanseverino che indica subito il carattere non urbano proprio dell’edificio, realizzato in conformità al progetto del 1828, opera dell’arch. Ireneo Aleandri (1795-1885).
Il libretto contiene la preziosa testimonianza di un attento contemporaneo, nonché committente entusiasta del nostro architetto. Nella città del tempo, le due figure sembrano, in qualche modo, simboleggiare le potenzialità di un contesto sociale e culturale, di una realtà economico-produttiva; l’affermazione di una renovatio urbis, favorita da contingenze storiche.
Insieme, il principe e il suo architetto, mettono mano ad un programma complessivo, in grado di rileggere la città, alla luce di nuovi principi di radice neoclassica in contrappunto ad una sensibilità decisamente classica (rappresentazione della città attraverso edifici di carattere monumentale – definizione formale e specializzazione funzionale delle diverse parti urbane – realizzazione di una unità di ordine superiore, non limitata entro lo spazio definito dalla cerchia delle mura, ma aperta e comprensiva la dimensione del paesaggio, forte unità dell’opera, distacco da una natura cattiva: un vero e proprio modello urbano che i due intellettuali hanno in mente di realizzare.
Si tratta di un programma che in realtà coinvolge diverse e varie forze e personaggi del tempo, un programma non dato a priori, non riferibile direttamente ad alcuno, ma in atto: la celebrazione della città, una nuova rappresentatività, da realizzare nei suoi caratteri interni come nei rapporti con la natura o con la città storica e il suo territorio, alla ricerca di un mondo idealizzato classico, sereno, sublime, filtrata attraverso una ragione neoclassica ed eclettica (contemporaneità e medesimo interesse per temi e modelli risalenti a differenti sistemi linguistici).
Tanto il conte Severino Servanzi Collio, quanto l’arch. Ireneo Aleandri, vedono la propria formazione intellettuale alla luce di quelle idee che circolano diffusamente in tutta Europa, consacrate ad uno spirito cosmopolita.
La fede in un razionalismo umanistico, il culto della storia e il profondo rispetto per le tradizioni, l’amore per l’archeologia e le memorie del luogo, l’ammirazione verso gli antichi e le loro opere, il sentimento della propria terra, l’interesse per la scienza, la fede nel progresso, il carattere e la ricerca di essenzialità, si fondono in un unico atteggiamento, che guarda al mondo rurale quale enorme risorsa produttiva, misura ideale per l’uomo, entro cui opera con il corpo e con lo spirito.
Intanto la città acquista tutto il valore tributatogli dalla storia e trova, con l’architettura nel paesaggio, la propria dimensione ideale.
Il tempio di san Paolo, la chiesa di Sanseverino al ponte, la chiesa di san Michele, o il rifacimento della facciata della chiesa di s. Maria delle Grazie, o la successiva fabbrica del cimitero, hanno il compito di realizzare, appunto, una unità di ordine superiore tra l’architettura, la città e la natura del luogo, entro una visione complessiva del paesaggio in tensione continua di partecipazione e distacco: unità che trova le ragioni, le conferme al modo e al linguaggio proprio, nella storia; acquista la massima considerazione lo studio della struttura della città nel tempo. La dimensione ridotta delle tre chiese citate, rende possibile la reale percezione dell’architettura nel paesaggio, realizzando una unità affatto originale tra le nuove fabbriche, il castello del Montenero, il borgo e la natura del luogo: l’architettura, il paesaggio e la città storica, rappresentano i punti di riferimento per il rinnovamento e la rappresentazione di una realtà economica, produttiva, sociale, oltreché ideale, in atto.
Il tempio di san Paolo si colloca sulla biforcazione di due importanti strade di accesso: l’una, superiore, attraverso Porta Romana e lungo via Salimbeni, introduce nel cuore della città; l’altra, inferiore, segue il corso del Potenza.
Dunque, allo studio dell’architetto si pongono due differenti situazioni spaziali, due punti di vista da cui lo stesso oggetto si apre a realtà differenziate.
A chi percorre la strada superiore, l’edificio si mostra, plasticamente immerso nello spazio naturale della valle, delimitata dalle colline circostanti, con l’ampia curva della parete continua, su cui si affaccia, nel mezzo, la piccola facciata d’ingresso, appena impressionata da un secco effetto chiaroscurale, con l’uso di motivi cari all’architetto, quali nicchie, occhi, lesene e trabeazione, appena marcati, nonché il prezioso e antico rilievo, memoria della chiesa preesistente. Musicalmente la piccola facciata e il volume, realizzano l’accordo fondamentale, dissonante, della composizione.
Verso il fiume, il tempio, il tempio si presenta come ulteriore limite, piano entro il quale la città si definisce, da cui si affaccia a valle: piano posto contro il piano estremo dell’orizzonte, schermo dove la finestra termale misura tutta la profondità rappresentabile sul piano compositivo (interventi successivi negano una reale leggibilità dell’edificio). Lo studio del piano orizzontale della composizione, nella prima ipotesi di progetto presentata dall’architetto alla commissione giudicatrice) rivela chiaramente la complessità del processo di formazione dello spazio: l’architetto indaga, attraverso la forma, sui rapporti tra l’architettura e il sito.
La sovrapposizione delle differenti figure geometriche, è in grado di mostrare e far propria la stratificazione del materiale architettonico, depositatosi sul luogo originario: allo spazio libero e naturale, si sovrappone l’opera, l’architettura (la chiesa preesistente all’intervento dell’Aleandri). Nel progetto, l’architetto, non abolisce la dimensione e il valore temporale del luogo; egli mostra, con il disegno, forma del tempo, pone il proprio intervento in dialettica, con le parti che lo hanno preceduto e che ora, partecipano alla complessità di una nuova sintesi formale. Il metodo progettuale, descritto, si propone quale reciproco di un fare archeologico, la scoperta dell’oggetto antico ottenuta togliendo materiale, scavando.
Paradossalmente, nel progetto archeologico, la stratificazione del materiale, è ottenuta sovrapponendo il progetto alla preesistenza e al sito: la sovrapposizione diventa il progetto stesso. Nel progetto per la sistemazione del quattrocentesco palazzo Servanzi, del 1830, i disegni mostrano chiaramente una prima sovrapposizione; successivamente la composizione diventerà un assemblaggio di unità plastiche indipendenti e concluse, ordinate in sequenza paratattica, con il tipico uso di congiunzioni copulative. Oltre la cortina della facciata, nel grande vuoto, le semplici figure geometriche (atrio – scalone – cortile triangolare) alludono ad una propria dimensione simbolica e ad una rappresentazione metastorica dello spazio. Gli ambienti più rappresentativi sono organizzati quali frammenti necessari alla ricomposizione di una perduta unità originaria del palazzo. Il processo di ristrutturazione dello spazio, mostra la ricerca di una unità che si dà per differenze; una unità formale simile a quanto si realizza letteralmente ne Le affinità elettive di Goethe. Nel tempio di san Paolo, la rappresentazione dello spazio principale, trova espressione nella figura chiusa e unitaria di una rotonda, sovrapposta ad un rettangolo tripartito (sacrestia – orchestra – sacrestia), forse memoria dell’impianto preesistente, medium formale della figura complessa, in cui compare la rotondità ideale del paesaggio, vero e proprio elemento di chiusura della pianta. L’analogico della figura geometrica dell’atrio, con la geometria dello spazio principale, permette di leggere l’uno, quale misura e trasposizione dell’altro.
Oltre il piano di facciata, anch’esso tripartito, attraverso l’atrio, si apre un’interno, senz’altro di carattere laico e teatrale, che trova ragione di necessità della sua particolarità spaziale – compositiva, nelle funzioni pratiche cui era destinato.
La rotonda accoglie e delimita uno spazio chiaro ed intimo, discretamente illuminato dalle aperture laterali, scandito dal ritmo sereno delle colonne, proiettato sulla parete di fondo, schermo ideale, dove è posta una finestra termale, come un grande occhio rivolto al paesaggio; in modo analogo, il paesaggio si proietta idealmente sulla parete, quale specularità mancante dello spazio semicircolare della rotonda.
Il linguaggio e i partiti compositivi utilizzati, rivelano un’approfondita conoscenza di temi e problematiche, proprio delle composizioni del Palladio e un preciso riferimento alle concezioni figurative e compositive del Serlio.
Un’attenta lettura del profilo dell’edificio, con il campanile a vela e la figura del santo, conferma il carattere sperimentale e di ricerca di una composizione capace di conciliare due temi fondamentali, quanto inconciliabili, dell’architettura classica – europea, espressioni di due antitetici caratteri dell’architettura: la superficie e la profondità, il muro e il trilite, in virtù di un concetto classico di armonia concordia partes discors. “La statua del Santo – secondo le parole dello stesso Servanzi – disegnata da Venanzo Bigioli, eseguita in ferro da Tobia Abati, pitturata da Francesco Fraticelli e collocata sopra il culmine del tetto della chiesa di san Paolo fuori delle mura da me Severino Servanzi Collio il 1848”, abita lo spazio e definisce il centro del mondo, uno spazio al cui centro è l’uomo, secondo i principi di una visione del mondo, razionale ed umanistica.
Il campanile a vela rappresenta l’elemento tipico dell’architettura delle chiese rurali o delle pievi romaniche, vero e proprio segno – simbolo, figura architettonica in cui la campana, la finestra sul cielo e la natura giacciono sullo stesso piano: luogo che appartiene totalmente al simbolico.
L’architettura, anche per la sua monocromaticità, acquista il senso di opera naturale; la natura riceve dall’architettura, ed in genere dall’opera dell’uomo, la dimensione del sacro (dimensione unicamente rappresentabile su un piano, atemporale, al di fuori di una dimensione storicamente e spazialmente prospettica del mondo, antropocentrica).
L’Aleandri contamina l’aulicità della lingua classica, universale, con il lessico vernacolare, tipico del luogo: la forma acquista una ricchezza espressiva insolita, sconosciuta alle parti che distintamente partecipano, cui solo un ibrido, un’arte dell’innesto, può dare vita.
Tipico dell’architetto Ireneo Aleandri, un rappresentarsi dell’architettura attraverso la formalizzazione del processo compositivo dell’opera, secondo criteri di variazione – manipolazione delle tipologie spaziali e figurative, citazioni ricavate dalla storia dell’architettura, quali ferri del mestiere; operando in ambiente di provincia, la figura dell’architetto, rischia di risolversi tutta entro la dimensione professionale: diversamente, l’Aleandri dimostra, oltre una indiscussa perizia tecnica e notevole capacità professionale, una grande padronanza di un’agile e complessa arte compositiva, nonché la rara capacità di trasporre e sviluppare su un piano figurativo, un pensiero architettonico: qualità proprie di un architetto singolare.
Il progetto, attraverso metonimie, metafore, allegorie elenca nel piano esiti stilistici eteronomi di un’arte combinatoria, che pretende esser dentro una razionalità ampia e metastorica del costruire. Un’architettura che, lungi dal definirsi arte simbolica, non offre la possibilità di una lettura testuale, circoscritta, trattatistica, ma pone il fondamento del proprio essere, nel processo di un divenire della forma come variazione – manipolazione infinita.
Essa non si presenta direttamente all’intelletto, quale forma a priori; nel progetto confluiscono temi e motivi originali, propri del luogo, in funzione di stimoli percettivi e sensoriali, spazi ricavati da una costante ricerca nella memoria e nel tempo: un’architettura che continuamente sottopone la forma a relazioni impossibili tra valori chiaroscurali e valori plastici.
Il progetto diventa il luogo delle figure possibili del comporre.”