Antipasto del banchetto romano: gustatio o promulsis
L’usanza di aprire un pasto con particolari alimenti è diffusissima e rientra nella tradizione sia dell’alta gastronomia che di quella popolare. Un menù descritto nel pranzo di Filossene, ci permette di conoscere alcune delicatezze della cucina greca del IV sec. a.C. Tra queste troviamo anche una “specie” di antipasto, e leggiamo che per stimolare l’appetito furono servite pasticcerie leggere.
Il “gustatio”, vero e proprio antipasto, veniva offerto dagli antichi Romani all’inizio della cena. Queste vivande erano chiamate da Cicerone “promulsis”, in relazione al fatto che all’inizio dei conviti c’era l’usanza di bere il mulsum, ossia il vino mielato. Gli antipasti erano rappresentati da cibi appetitosi e stimolanti, specialmente ortaggi, accompagnati da salse acri e piccanti. Sin dai quei tempi, si era capito che se il convivio era aperto con insalate miste di vegetali crudi, questi aiutavano il sistema digestivo a ricevere gli altri alimenti. Secondo Cicerone, gli antipasti si potevano chiudere anche con salsiccia, ostriche e ricci di mare, comunque piatto di rito era l’uovo servito sodo. In seguito alle invasioni barbariche, durante l’alto Medioevo, si perse l’uso dell’antipasto, ed i banchetti iniziavano direttamente dalle carni. La voce “antipasto” figura per la prima volta nel ‘500, in uno scritto del Firenzuola, e successivamente presso altri autori. Nella lista delle vivande, tale dicitura non ha alternativa nel trattato del Messisbugo, mentre in quello dello Scappi e nei seguenti, ciò che è antipasto viene denominato “primo servizio di credenza”. Grande la varietà delle portate incluse, sia dolci che salate: radicchio, carote, capperi, insalate, salsicce, mortadelle, polpette ecc.
Successivamente nella “Grande Cuisine” (XIX sec.) il concetto di antipasto fu assorbito nel temine francese “hors d’oeuvre” (fuor d’opera), a indicare che si considerava una portata fuori menù.
articolo tratto dal sito web: https://www.taccuinigastrosofici.it
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La dimensione monumentale dell’architettura neoclassica con i mascheroni che rappresentano i volti dei committenti in fogge e acconciature dell’antica Roma e la sorpresa dell’atrio dipinto in stile pompeiano del terzo stile introducono a quella cultura archeologica che si è sviluppata a partire dalla prima metà dell’800 grazie a figure appassionate come il Conte Giambattista Collio, il Conte Severino Servanzi Collio o il M.se Nicola Luzi e la Nobile consorte Marianna Tinti a cui questo edificio venne probabilmente dedicato, a ricordo delle sue virtù e del suo amore per le antichità.
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